Nelle
motivazioni dei giudici la drammatica assenza di prove
Caro direttore
non
è questa la sede per muovere obiezioni alla condanna comminata dal
Tribunale di Pescara e le motivazioni che dovrebbero sostenerla. Lo
stanno facendo gli avvocati ed è bene che siano loro a rappresentare
e difendere le nostre obiezioni nelle sedi proprie. Vorrei solo fare
qualche riflessione sulle cose che mi hanno colpito delle
«motivazioni» che dovrebbero sostenere le ragioni della pesante
condanna decisa dalla Corte.
Ho scelto poche cose tra le tante che mi hanno colpito: parlo di
quelle che possono controllare tutti i lettori de Il Tempo . La
prima: le motivazioni non riescono a colmare il vuoto drammatico di
prove che avrebbe dovuto sostenere l’impianto accusatorio. Ed allora
si ricorre a ragionamenti che è difficile accettare e considerare
esaustivi.
Come si fa a dire che la legge 6, approvata dal Consiglio Regionale,
e tuttora in vigore, è il prodotto di un rapporto corruttivo tra chi
scrive ed il grande accusatore del processo, il dottor Angelini?
Quella legge è stata discussa per mesi dalle commissioni del
Consiglio Regionale, è stata modificata (migliorata) dal lavoro
della commissione Sanità che ha messo a disposizione della
discussione in Consiglio il testo che, alla fine della lunga ed
efficace discussione in Assemblea, è diventato legge: con quell’atto
si è avviato (assieme alla legge 20) uno dei processi più efficaci
di risanamento dei conti della Sanità. Quelle due leggi sono state,
sono, e spero rimarranno, il centro del negoziato permanente tra
Regione e Stato e sono state difese con molta energia anche
dall’attuale giunta Chiodi, nonostante i tentativi delle cliniche
private di rimetterle in discussione. I lettori del suo giornale
debbono saper due cose. La prima: nelle motivazioni si scrive che la
legge 6 fu concordata per favorire Angelini. Gli abruzzesi, i
partiti abruzzesi, le parti sociali della mia terra, dovrebbero
sapere che, contro la legge 6, fu presentato ricorso presso la Corte
Costituzionale giacché si riteneva che il testo ledesse un principio
fondamentale: la libertà d’impresa, nientedimeno! Poiché si afferma
che essa era il prodotto di un accordo tra chi scrive ed Angelini, i
lettori debbono sapere che il presentatore dell’opposizione al più
alto livello consentito, l’Alta Corte, fu proprio il vecchio
proprietario di Villa Pini, Enzo Angelini. Solo successivamente le
altre cliniche private si mossero d’intesa con quel ricorso e tutte
assieme furono sconfitte dalla decisione della Corte di rigettare
l’opposizione. Quanto alla legge 20/2006, ricordo solo la sua
applicazione determinò per Villa Pini una sanzione amministrativa di
ben 14,5 milioni di euro. Come si fa a scrivere che quelle leggi
erano figlie di un ordito criminale messo in campo da me, dalla
giunta, dalla lunga discussione parlamentare, dalla maggioranza che
votò la legge, financo con la complicità dei governi nazionali che
hanno adottato quelle leggi come base utile per il negoziato
Stato-Regione. E come è possibile che leggi regionali, tuttora
vigenti e operative, approvate rispettando tutto l’iter che
garantisce il ruolo delle parti, politiche, sociali, istituzionali,
possano essere sanzionate come se Angelini ne avesse scritto parti
di esse, e poi lo stesso Angelini, ricorreva alla Corte
Costituzionale per impedire che esse diventassero norme regionali a
tutti gli effetti: ecco i fatti separati dalle interpretazioni a cui
occorre chiedere soccorso se non si hanno prove, piccole o grandi
come "montagne", per sostenere l’impianto accusatorio.
La seconda osservazione riguarda la questione dei soldi o di
probabili tracce di soldi di origine non chiara, che potrebbe essere
risolta rileggendo la deposizione in aula del colonnello Favia della
Guardia di Finanza di Pescara, delegato a tutte le indagini decise
dalla Procura, comprese quelle fondamentali sulle somme che Angelini
avrebbe distribuito a piene mani a molta gente. Il colonnello ha
affermato in Aula che non un solo euro è passato sui conti correnti
miei, «senza che se ne conoscesse la provenienza e la loro liceità»,
ed ecco che ricompare la separazione dei fatti dalle
interpretazioni.
I fatti sono le testimonianze degli investigatori, le
interpretazioni ci dicono che, per comprare la casa dove abitava la
mia compagna di vita per molti anni, avrei fatto ricorso a "mezzi
propri", avrei cioè ridotto la consistenza dei miei conti correnti.
È vero. Mi chiedo: come hanno fatto l’80% degli italiani proprietari
del loro alloggio, o coloro che hanno comprato la casa per i propri
figli, ricorrendo ai mezzi disponibili ed ovviamente riducendoli a
non commettere alcun reato, mentre nel mio caso, il ricorso al
proprio conto corrente, ricostruito pazientemente dalla GdF euro su
euro, diventa la prova di un evento corruttivo? La corte sa bene che
quell’appartamento poteva essere acquistato solo da chi l’abitava.
Perché la motivazione chiama «terzi», mio figlio e la mia compagna,
destinatari del mio intervento, con somme presenti nel mio conto
corrente da molti anni prima che diventassi presidente della
Regione? La GdF, dice sempre il colonnello, non ha trovato un solo
euro di origine incerta o addirittura sospetta. E perché allora, per
descrivere una normale storia familiare, un normale rogito notarile,
si usano termini che non ho mai sentito nelle vicende che avevano
come protagonisti un intero popolo, che vanta il record mondiale
delle abitazioni di proprietà di chi le abita? Ecco di nuovo il
"fatto separato dall’interpretazione": non avendo trovato una euro,
o a una traccia di un solo euro di origine incerta, si trasforma un
normale passaggio di proprietà in una prova di un illecito mai
commesso.
Ecco direttore. Mi sono limitato a qualche osservazione che riguarda
i rischi di degenerazione della cultura democratica delle
istituzioni e dell’equilibrio e le distinzioni di ruolo (che vanno
difese con le unghie e con i denti) e la orgogliosa difesa della mia
storia personale da accuse infondate e senza un benché minimo
riscontro probatorio. Questo ed altro sarà il terreno di confronto
giudiziario che vedrà le parti davanti alla corte d’Appello. E
questo è compito dei miei avvocati e di tutti gli altri
rappresentanti legali degli imputati. Che qualcuno abbia rimosso
fatti che sono scritti, ripeto, scritti negli atti del processo,
dove si prova la responsabilità penale degli imputati oppure la loro
estraneità ai fatti, è grave e preoccupante. Ma le cose che ho
scritto sono tutte note ed hanno prodotto grandi scontri politici
alla luce del sole. Possibile che me ne ricordi solo io ed i miei
compagni di sventura?
Ottaviano Del Turco
24 ottobre 2013 |