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Enrico Buemi

 

 

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Nelle motivazioni dei giudici la drammatica assenza di prove

Caro direttore
non è questa la sede per muovere obiezioni alla condanna comminata dal Tribunale di Pescara e le motivazioni che dovrebbero sostenerla. Lo stanno facendo gli avvocati ed è bene che siano loro a rappresentare e difendere le nostre obiezioni nelle sedi proprie. Vorrei solo fare qualche riflessione sulle cose che mi hanno colpito delle «motivazioni» che dovrebbero sostenere le ragioni della pesante condanna decisa dalla Corte.
Ho scelto poche cose tra le tante che mi hanno colpito: parlo di quelle che possono controllare tutti i lettori de Il Tempo . La prima: le motivazioni non riescono a colmare il vuoto drammatico di prove che avrebbe dovuto sostenere l’impianto accusatorio. Ed allora si ricorre a ragionamenti che è difficile accettare e considerare esaustivi.
Come si fa a dire che la legge 6, approvata dal Consiglio Regionale, e tuttora in vigore, è il prodotto di un rapporto corruttivo tra chi scrive ed il grande accusatore del processo, il dottor Angelini? Quella legge è stata discussa per mesi dalle commissioni del Consiglio Regionale, è stata modificata (migliorata) dal lavoro della commissione Sanità che ha messo a disposizione della discussione in Consiglio il testo che, alla fine della lunga ed efficace discussione in Assemblea, è diventato legge: con quell’atto si è avviato (assieme alla legge 20) uno dei processi più efficaci di risanamento dei conti della Sanità. Quelle due leggi sono state, sono, e spero rimarranno, il centro del negoziato permanente tra Regione e Stato e sono state difese con molta energia anche dall’attuale giunta Chiodi, nonostante i tentativi delle cliniche private di rimetterle in discussione. I lettori del suo giornale debbono saper due cose. La prima: nelle motivazioni si scrive che la legge 6 fu concordata per favorire Angelini. Gli abruzzesi, i partiti abruzzesi, le parti sociali della mia terra, dovrebbero sapere che, contro la legge 6, fu presentato ricorso presso la Corte Costituzionale giacché si riteneva che il testo ledesse un principio fondamentale: la libertà d’impresa, nientedimeno! Poiché si afferma che essa era il prodotto di un accordo tra chi scrive ed Angelini, i lettori debbono sapere che il presentatore dell’opposizione al più alto livello consentito, l’Alta Corte, fu proprio il vecchio proprietario di Villa Pini, Enzo Angelini. Solo successivamente le altre cliniche private si mossero d’intesa con quel ricorso e tutte assieme furono sconfitte dalla decisione della Corte di rigettare l’opposizione. Quanto alla legge 20/2006, ricordo solo la sua applicazione determinò per Villa Pini una sanzione amministrativa di ben 14,5 milioni di euro. Come si fa a scrivere che quelle leggi erano figlie di un ordito criminale messo in campo da me, dalla giunta, dalla lunga discussione parlamentare, dalla maggioranza che votò la legge, financo con la complicità dei governi nazionali che hanno adottato quelle leggi come base utile per il negoziato Stato-Regione. E come è possibile che leggi regionali, tuttora vigenti e operative, approvate rispettando tutto l’iter che garantisce il ruolo delle parti, politiche, sociali, istituzionali, possano essere sanzionate come se Angelini ne avesse scritto parti di esse, e poi lo stesso Angelini, ricorreva alla Corte Costituzionale per impedire che esse diventassero norme regionali a tutti gli effetti: ecco i fatti separati dalle interpretazioni a cui occorre chiedere soccorso se non si hanno prove, piccole o grandi come "montagne", per sostenere l’impianto accusatorio.
La seconda osservazione riguarda la questione dei soldi o di probabili tracce di soldi di origine non chiara, che potrebbe essere risolta rileggendo la deposizione in aula del colonnello Favia della Guardia di Finanza di Pescara, delegato a tutte le indagini decise dalla Procura, comprese quelle fondamentali sulle somme che Angelini avrebbe distribuito a piene mani a molta gente. Il colonnello ha affermato in Aula che non un solo euro è passato sui conti correnti miei, «senza che se ne conoscesse la provenienza e la loro liceità», ed ecco che ricompare la separazione dei fatti dalle interpretazioni.
I fatti sono le testimonianze degli investigatori, le interpretazioni ci dicono che, per comprare la casa dove abitava la mia compagna di vita per molti anni, avrei fatto ricorso a "mezzi propri", avrei cioè ridotto la consistenza dei miei conti correnti. È vero. Mi chiedo: come hanno fatto l’80% degli italiani proprietari del loro alloggio, o coloro che hanno comprato la casa per i propri figli, ricorrendo ai mezzi disponibili ed ovviamente riducendoli a non commettere alcun reato, mentre nel mio caso, il ricorso al proprio conto corrente, ricostruito pazientemente dalla GdF euro su euro, diventa la prova di un evento corruttivo? La corte sa bene che quell’appartamento poteva essere acquistato solo da chi l’abitava. Perché la motivazione chiama «terzi», mio figlio e la mia compagna, destinatari del mio intervento, con somme presenti nel mio conto corrente da molti anni prima che diventassi presidente della Regione? La GdF, dice sempre il colonnello, non ha trovato un solo euro di origine incerta o addirittura sospetta. E perché allora, per descrivere una normale storia familiare, un normale rogito notarile, si usano termini che non ho mai sentito nelle vicende che avevano come protagonisti un intero popolo, che vanta il record mondiale delle abitazioni di proprietà di chi le abita? Ecco di nuovo il "fatto separato dall’interpretazione": non avendo trovato una euro, o a una traccia di un solo euro di origine incerta, si trasforma un normale passaggio di proprietà in una prova di un illecito mai commesso.
Ecco direttore. Mi sono limitato a qualche osservazione che riguarda i rischi di degenerazione della cultura democratica delle istituzioni e dell’equilibrio e le distinzioni di ruolo (che vanno difese con le unghie e con i denti) e la orgogliosa difesa della mia storia personale da accuse infondate e senza un benché minimo riscontro probatorio. Questo ed altro sarà il terreno di confronto giudiziario che vedrà le parti davanti alla corte d’Appello. E questo è compito dei miei avvocati e di tutti gli altri rappresentanti legali degli imputati. Che qualcuno abbia rimosso fatti che sono scritti, ripeto, scritti negli atti del processo, dove si prova la responsabilità penale degli imputati oppure la loro estraneità ai fatti, è grave e preoccupante. Ma le cose che ho scritto sono tutte note ed hanno prodotto grandi scontri politici alla luce del sole. Possibile che me ne ricordi solo io ed i miei compagni di sventura?

Ottaviano Del Turco

24 ottobre 2013

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