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La sinistra vince solo se è globale

di Ugo Intini

Ezio Mauro, sulla Repubblica, compie un lungo, documentato “viaggio in Italia cercando la sinistra”: da Nord a Sud, dalla periferia ai centri urbani. Ex direttore e oggi autorevole opinion leader, si trasforma in diligente cronista e, aggiungendo coinvolgenti pennellate di colore, fotografa la realtà.

Scorrono le immagini dei poveri che votano non più PCI o PD, ma M5. Quelli veri (soprattutto i “nuovi poveri”) e quelli che si percepiscono comunque come tali, perchè soffrono la perdita di status e il declino del ceto medio. Ascoltiamo la rabbia contro la politica come “classe eterna” e le semplificazioni del populismo. Tocchiamo con mano lo smarrimento della sinistra che non sa più parlare a quella che un tempo era la sua gente. Che sceglie al Sud gli “sceriffi” e “uomini della provvidenza”. Che rischia di precipitare nel baratro incolmabile creato dalla “divaricazione epocale tra i privilegiati che vivono nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi di informazione e i dannati che abitano il sottosuolo degli Stati nazionali”. Una sinistra che si trova stretta in una tenaglia infernale, perché “tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti al corpo nudo del migrante e tradisce i cittadini se si tappa le orecchie di fronte alla loro richiesta di sicurezza”.

L’analisi è netta. Ma i rimedi non lo sono altrettanto. Mauro ricorda i meriti, sottolineati da Prodi, del welfare costruito in Europa nei “Trenta Gloriosi” anni successivi alla seconda guerra mondiale. Indica come esempio virtuoso quello costruito da Pisapia e Sala a Milano, con una larga alleanza di sinistra che va dalle frange più radicali sino ai borghesi illuminati come Milly Moratti. Sì conforta osservando che, secondo i sondaggi, ancora il 17 per cento degli italiani si considera di sinistra e il 17 di centro sinistra. Sembra indicare una sorta di rinnovato Ulivo come la possibile soluzione. Ma soprattutto crea le premesse per un dibattito che riguarda non soltanto la sinistra, bensì la democrazia italiana in generale. Un dibattito che vale davvero la pena di sviluppare.
L’Ulivo è una delle formule (tutte fallite) di quello che potremmo definire il nostro “ventennio perduto”: perduto perché, dalla metà degli anni ’90 a oggi, ci troviamo più poveri e con una democrazia meno solida. A mio parere, non è possibile riproporlo sperando che il “rito ambrosiano” di Pisapia e Sala possa affermarsi a livello nazionale. Non è possibile partire dall’Italia per una riflessione più generale sulla sinistra nel nuovo secolo. E soprattutto non è utile individuare per questa riflessione un solo orizzonte temporale. Dobbiamo indicarne due e ragionare pertanto separatamente su due piani distinti: quello dei tempi medi e lunghi (che riguarda l’intero Occidente); e quello immediato (che richiede risposte per l’Italia, qui e oggi).

Cominciamo dal primo. I bianchi dell’America profonda che eleggono Trump a dispetto di New York e Los Angeles, i ceti medi e popolari della provincia inglese che scelgono il Brexit contro Londra, i poveri (vecchi e nuovi) delle periferie italiane che votano M5, i piccolo borghesi impauriti e declassati che votano Lega, sono parte dello stesso fenomeno. Sono i perdenti della globalizzazione. Finita la minaccia comunista, il potere finanziario occidentale, da Wall Street alla City britannica, ha pensato che non bastasse più la privatizzazione dell’economia, ma che si potesse puntare alla “privatizzazione della politica”. Che si potesse ottenere non più soltanto lo “Stato minimo”, ma la “politica minima”: una politica così piccola da non poter ostacolare e neppure condizionare il trionfante liberismo senza frontiere. Già nel 2000, Alan Blinder (non un estremista di sinistra, ma il vice presidente della Banca Federale americana) scriveva. “Quando gli storici guarderanno indietro a questo periodo, diranno che la sua caratteristica principale è stata lo spostamento senza precedenti di denaro e di potere dal lavoro verso il capitale, dal basso verso l’alto della piramide sociale”. Da allora a oggi, il fenomeno si è ingigantito a valanga. Il potere senza freno della finanza internazionale, con i crolli successivi di Wall Street, ha bruciato una ricchezza pari a quella persa nell’ultima guerra mondiale. E ancora non ci siamo ripresi.

Bisogna dunque aggredire le banche e la finanza? Bisogna condannare la globalizzazione? Assolutamente no. La globalizzazione ha liberato dalla povertà due miliardi di persone, ha reso i beni e servizi più economici per tutti, ha dischiuso opportunità immense. Ma come non vedere il nodo centrale? Oggi, inevitabilmente e sempre di più, sono globali il commercio, l’economia, la scienza, lo spettacolo, la comunicazione, il crimine, il calcio. Tutto, nel bene e nel male, è diventato globale, meno la politica, che è rimasto incatenata negli anacronistici confini nazionali e quindi conta sempre meno. Le multinazionali occidentali (e non solo) fanno bene a mietere profitti senza frontiere. Semplicemente, devono evitare che una economia di carta (fatta di prodotti finanziari “derivati” e di speculazioni che hanno trasformato le Borse in casinò senza regole) sostituisca l’economia reale e la schiacci. Semplicemente, devono pagare le tasse non alle Bahamas o alle isole Cayman (o nelle capitali dei furbi governanti che, come gli irlandesi, praticano il “dumping fiscale”), ma a New York, Parigi o Milano. Cosicché i governi possano investire in sicurezza e in assistenza per i perdenti della globalizzazione. Cosicché possano soprattutto investire in istruzione, perché i nostri giovani devono essere in grado di aggiungere, a ogni bene o servizio prodotto in Occidente, una quantità superiore e imbattibile di cultura, tecnologia e creatività. In tal modo, l’operaio siderurgico cinese o l’operatore del call center indiano o albanese smetteranno di essere un pericolo. Di più. Il nostro welfare e i nostri diritti di libertà non sono una conquista socialdemocratica da difendere senza convinzione, arretrando e tagliando continuamente di qua e di là. Devono essere adattati ai tempi, certo, ma rivendicati con orgoglio soprattutto dall’Europa che li ha creati e che trae da essi la sua stessa identità, devono essere propagandati come un modello. Non dobbiamo portare il terzo mondo in Europa, ma l’Europa nel terzo mondo. Perché quando questi diritti sociali e individuali verranno esportati, quando diventeranno “contagiosi”, l’operaio siderurgico cinese e l’operatore del call center indiano o albanese non saranno più dei concorrenti sleali.

Occorre per tutto questo più politica e più passione politica (non meno politica). Occorre soprattutto una “politica globale”: globale come tutte le altre espressioni della società moderna. E una politica globale si costruisce gradualmente, a tappe, aggregando e non disgregando. Per noi, si costruisce partendo dall’unità politica europea perché, appunto, ci serve non meno ma più Europa. Questo dicono i politici che hanno “vision”. Come il nuovo segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, vecchio amico e frequentatore dell’Italia, ex primo ministro portoghese e soprattutto ex presidente dell’Internazionale socialista, che darà alla sinistra delle sorprese positive. Come il candidato alle elezioni presidenziali che per la prima volta nella storia americana si è definito socialista e che è stato l’unico a scaldare il cuore dei giovani: Berny Sanders. A ben vedere, questo dice il Papa stesso, che è pur sempre un punto di riferimento anche e soprattutto per quei cristiani popolari europei i quali, non a caso, dialogano e si alleano con i socialdemocratici.

Il piano dei tempi medi e lunghi, necessari per costruire, attraverso lo sforzo di più generazioni, la “politica globale” nel mondo altrettanto globale non può essere dimenticato, se non si vuole perdere la bussola. Ma dobbiamo tornare alle miserie italiane e ai tempi brevi, anzi, brevissimi: al piano del qui e oggi. Anche perché la lotta epocale contro lo strapotere della finanza internazionale e del pensiero unico liberista non può essere condotta da un Paese isolato: non soltanto l’Italia, ma persino la Germania ne risulterebbe stritolata.

La nostra crisi si colloca nel contesto di quella generale dell’Occidente fotografata da Alan Blinder, ma è enormemente più grave. Così grave che richiede rimedi urgenti e quasi ovvi, tali da essere auspicabili non dalla sinistra o dalla destra, ma da qualunque persona politicamente razionale. Partiamo dai dati strutturali. L’Italia è tra i Paesi più vecchi del mondo e la vecchiaia non è mai stata un motore per lo sviluppo economico. Anzi, è considerata la causa principale dei bassi consumi e della conseguente deflazione. Nel contesto di una denatalità avvilente, i nostri giovani sono pochi e i pochi, per di più, sono i meno istruiti tra quelli dei Paesi moderni. Per percentuale di laureati, siamo infatti al 34º e ultimo posto tra i Paesi dell’OCSE. Gli italiani privi di un diploma di scuola secondaria sono il 39,5 per cento, contro il 13,1 e il 27,8 per cento rispettivamente della Germania e della Francia. Aggiungiamo che la giustizia non funziona e manca pertanto per gli investitore esteri la certezza del diritto: esattamente l’ostacolo che blocca lo sviluppo del terzo mondo. Che l’illegalità devasta intere regioni e che l’evasione fiscale è a livelli più sudamericani che europei. Ezio Mauro è straordinariamente efficace nel descrivere i mali, da Nord a Sud. Ma non si tratta di singoli mali contro i quali possono essere decisi singoli rimedi. E non si tratta di problemi della sinistra, bensì dell’Italia. Non guardiamo le tante pagliuzze, ma la trave. Parafrasando Clinton, si potrebbe dire : “è la povertà, stupido”. E’ la povertà che ha degradato e imbarbarito lentamente il Paese fotografato dalla Repubblica. Un Paese che dal 2000 al 2017, nel “ventennio perduto”, è cresciuto complessivamente dello 0,7 per cento: niente. Contro il 22 per cento della Francia e della Germania o il 30 per cento della Spagna. Vecchiaia, ignoranza, illegalità sono alla base di questa stagnazione epocale. E la propensione alla lotta contro queste calamità non è certo patrimonio di una sola area politica. E’ una lotta che non può evidentemente dare risultati in tempi brevi, ma richiede un lungo e paziente sforzo.

Può questo sforzo essere affrontato da chi è minoranza nel Paese, perennemente assillato dalle imminenti scadenze elettorali, preoccupato di consultare i sondaggi e di dire alla gente quello che vuole sentirsi dire? Magari condannando la “casta” (quando governa a livello locale e nazionale da decenni), oppure l’Europa (quando ne condivide, altrettanto da decenni, tutte le decisioni)? La risposta è ovviamente no: occorre una maggioranza (o almeno qualcosa che le si avvicini) non in Parlamento soltanto, ma tra i cittadini.

Qui arriviamo alle risposte nazionali, che riguardano l’immediato. Esiste certo, ed è continuamente ricordata, l’esigenza della governabilità. Ma si dimentica quella della rappresentatività delle istituzioni, come se non fossimo in una democrazia definita, appunto, “rappresentativa”. Ormai abbiamo quattro poli: ciascuno formato approssimativamente del 25 per cento degli italiani. Il polo degli astenuti, quello della sinistra, quello della destra e quello di M5. L’attuale coalizione di governo (che detiene la maggioranza alla Camera soltanto grazie al premio) ha ottenuto, se si fanno bene i conti, il voto del 19,05 per cento degli italiani. In futuro, continuando nella logica del maggioritario e del bipolarismo (che resiste imperterrita nonostante la sparizione del bipolarismo stesso), chiunque vinca grazie al premio avrà pur sempre ottenuto (almeno in prima battuta) poco più o poco meno del 30 per cento dei voti espressi. Possiamo continuare a giocare alla roulette? Anzi, alla roulette russa, perché una vittoria di M5 potrebbe risultare mortale. Possiamo stupirci della impopolarità della politica e della scarsa fiducia nelle istituzioni quando esse stanno in piedi con il voto di un italiano su cinque?

La soluzione non piace a quasi tutti i leader politici, ma esiste. Basta abbandonare gli schemi del “ventennio perduto” e le forzature che fanno violenza ai fatti. I sindacalisti comunisti di SEL e i dirigenti della Confindustria Renziani, gli europeisti del Partito Popolare europeo e gli antieuropeisti di Salvini possono forse governare insieme Milano i primi e Venezia i secondi, ma non l’Italia. D’altronde, i comunisti della Linke non stanno con i socialdemocratici tedeschi e i lepenisti non stanno con il centro destra francese. Grillo e Salvini sono due pericoli da porre ai margini. La politica con la P maiuscola consiste nella paziente ricerca di punti di equilibrio, alleanze e minimi comuni denominatori. Chi per primo ha definito “inciuci” queste virtù della politica è stato Di Pietro. E non ha fatto precisamente la fine dello statista.

Nel contesto di un sistema elettorale proporzionale, che escluda la “roulette russa ” prima ricordata, l’area della razionalità politica si deve unire sino a che è in tempo, contrastando frontalmente (e non cavalcando) la retorica populista comune a Grillo e Salvini. Lo richiede la straordinaria gravità della situazione italiana. Ma non è in contrasto con la realtà europea. I cristiani popolari tedeschi e i socialdemocratici sono alleati, così come lo stanno diventando, in pratica, quelli spagnoli. E la maggioranza che guida il Parlamento europeo è non a caso costituita dal Partito Popolare (democratico cristiano) e dai socialdemocratici uniti.

Il tabu del bipolarismo e del maggioritario è stato custodito gelosamente, nel “ventennio perduto”, dai capi dei due poli, anche perchè si trattava di una camicia di forza che soffocava le minoranze interne e garantiva il loro potere (ultimamente, persino quello di “nominare” i parlamentari). Ma adesso il tabù deve cadere di fronte all’emergenza della crisi italiana. Deve cadere nella legislazione elettorale dopo che è caduto nella pratica, con la nascita di M5 e conseguentemente del “tripolarismo”. Non siamo alla fame, ma in un disastro materiale e morale che ricorda, fatte le debite proporzioni, l’immediato dopo guerra, quando addirittura comunisti e democristiani (il seguace di Stalin Togliatti e quello del Vaticano De Gasperi) si allearono per la ricostruzione. Una ricostruzione per la quale la base fu la verità. Scriveva Ignazio Silone nel 1943. “Il popolo italiano è degno della verità. Le sole conquiste politiche e sociali durature sono quelle che saranno costruite non sulla furberia, non sull’inganno, ma sulla verità”. La verità, oggi, è forse proprio quella che mette a nudo la crisi nelle sue esatte, drammatiche, spesso inconfessate dimensioni. Ed è quella di chiarire che tale crisi non può essere più affrontata con le vecchie risse bipolari tra (talvolta sedicenti) sinistra e destra.

Articolo di Ugo Intini pubblicato su Il Mattino il 24 novembre 2016

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