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L’attacco condotto verso i titoli di Stato

L’Italia al ribasso

di Giuseppe Romeo (Autore di numerosi saggi di strategia e politica internazionale)

Vi è una notizia tipicamente economica che, nella sua drammaticità, è politica, e geopolitica, se si vuole: l’attacco condotto verso i titoli di Stato italiani. Ovvero i certificati emessi a fronte del ricorso dello Stato al risparmio privato per dotarsi di liquidità secondo una distorta interpretazione della finanza funzionale. Ora in tempi di crisi, attraverso opportune manovre finanziarie, tocca allo Stato esprimersi come regolatore attivo del sistema economico. Per la teoria keynesiana che introduce il concetto di finanza funzionale è un compito fondamentale dello Stato quello di intervenire per assicurare l’equilibrio del sistema economico indirizzando le imprese private con politiche coordinate e non estemporanee regolando sia il prelievo fiscale che la spesa pubblica.

La conseguenza di politiche economiche abbandonate alle regole del mercato sarebbe quella che gli imprenditori non abbiano più alcun interesse ad aumentare la produzione mentre lo Stato, contraendosi le entrate e aumentando la spesa pubblica ricorre all’indebitamento con l’emissione di titoli per farvi fronte. Tutto ciò rinunciando a comprendere che la crescita, e solo la crescita economica rappresenta l’utile soluzione per affrontare trend recessivi adeguando gli sforzi e le azioni per ottenere un assorbimento progressivo della disoccupazione e aumentare la base del reddito, e delle entrate. Per i keynesiani, il tasso di disoccupazione è una costante nel tempo e, quindi, risolvibile nella misura in cui lo Stato aumenta la spesa pubblica favorendo le attività di impresa ponendosi come primo committente. La critica fatta al modello così rappresentato è che per alcuni la crisi prima o poi si raggiunge comunque dal momento che l’eccessivo aumento della spesa pubblica unito alla crescita della pressione tributaria portano ad uno squilibrio del mercato.

A fare da contraltare ai keynesiani intervengono i cosiddetti monetaristi. Per tale corrente le politiche keynesiane producono effetti solo nel medio/lungo termine, quindi ben al di là delle utilità delle stesse nelle congiunture di crisi, dimostrandosi non idonee a calmierare gli effetti nel tempo di un aumento della spesa pubblica, riducendone le possibilità di contenimento e dilatando l’indebitamento e gli effetti dell’indebitamento: i tassi di interesse. Per i monetaristi, quindi, non vi sarebbe rimedio che garantire l’equilibrio economico solo con manovre monetarie, misurabili, prescindendo dal ricorso all’indebitamento e adeguando al momento spese a disponibilità. Ma anche in questo caso il limite della teoria è ben presente. Una politica economica fondata solo sull’approccio monetarista non permetterebbe di condurre alcun progetto a medio-lungo termine dal momento che nessun investimento potrebbe essere adeguatamente finanziato in un’ottica di risorse limitate. Ora, non essendo l’economia una scienza esatta come quelle fisiche, ma una disciplina che si fonda sull’esame dei comportamenti, delle propensioni al consumo e al risparmio, sulla formazione dei redditi e sulle capacità di spesa, la verità, come sempre, sta nel mezzo. Ovvero nella capacità di coniugare, mutatis mutando, caratteristiche dell’una con quelle dell’altra teoria cercando di adeguare politiche ed azioni, gestendo il momento e non diventando vittime dell’iniziativa altrui.

Ciò che succede oggi all’Italia non è altro, in effetti, che il risultato di una politica economica che si è accontentata di guardare alla finestra, di non esprimere nessuna guida o indirizzo alle imprese, limitando il suo piccolo orizzonte ad una sola prospettiva di fiscalità mirata a drenare risorse utili ma non all’investimento. D’altra parte, lo stesso ricorso all’indebitamento dei decenni passati non si è espresso in termini di spese di investimento, ma si è risolto nello sperpero di quanto incassato, con le politiche fiscali e con il ricorso all’emissione dei titoli di Stato, in spese di mantenimento. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti. Una politica immatura, dal punto di vista economico tipica da artifici contabili, un Paese a crescita zero, imprenditorialmente ingessato, fortemente indebitato. Un Paese che non offre garanzie di solvibilità nel medio termine attraverso politiche di crescita prim’ancora che di mera liquidità, che diventa facile preda di attacchi speculativi. Quanto accade in questi giorni, in queste ore, non è, e non doveva essere, una novità.

L’intenzione di attaccare l’Italia era già nell’aria. Alitalia, Parmalat, le cordate nell’alimentare che hanno visto - e vedranno ancora mentre i politici italiani si inebriano di una dimensione onirica della propria vita- passare molti brand italiani sotto l’egida di un capitale d’Oltralpe più capace non sono che alcuni aspetti a cui mancava la conquista finanziaria giocata sul mercato di Piazza Affari. E come tutte le operazioni che mirano ad un certo successo, si aspetta il momento migliore per condurle. Quel momento in cui l’avversario è politicamente debole, incerto, ancor meglio se politicamente “assente”. Ma attacchi nonostante, ci salveremo ancora una volta e solo per un motivo. Perché l’Italia è, e resterà, nell’Unione Europea e nell’economia mondiale uno spazio di consumo. Solo che a fare i prezzi, a decidere cosa dovremmo consumare e chi dovrà produrre i beni e offrire i servizi non lo decideremo più da italiani.

 

 

 

 

 

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