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Così i giornalisti fecero i killer della prima Repubblica

La grande alleanza tra media e pm affondò un intero sistema politico

La Prima Repubblica era una cosa buona? Chi l’ha uccisa? Pierluigi Battista ha scritto un articolo sulla “Lettura” ( il supplemento domenicale del “Corriere della Sera”) nel quale rimpiange quel periodo della storia recente del nostro paese, che fu il periodo del grande sviluppo economico e della affermazione della democrazia. E ne esalta molti aspetti positivi. Ieri Emanuele Macaluso, in uno scritto che abbiamo pubblicato sul Dubbio, ha fatto osservare che negli anni nei quali la prima Repubblica fu liquidata dall’inchiesta “Mani Pulite” i giornali certamente non la difesero.

Vorrei andare un pochino oltre la giusta affermazione di Macaluso ( che è stato tra i dirigenti più importanti di quella fase della vita repubblicana). Credo che i giornali e i giornalisti svolsero il ruolo di killer del sistema dei partiti e quindi della prima Repubblica. Assumendosi l’incarico di demolire una parte della Costituzione repubblicana, e cioè quella che delineava un sistema democratico forte e fondato sulla struttura dei partiti e dei sindacati. ( Curioso notare che oggi quelli che ritengono intoccabile la Costituzione repubblicana sono o gli stessi o gli eredi di coloro che la demolirono 25 anni fa).

I giornali e i giornalisti presero su di se, consapevolmente e baldanzosamente, una responsabilità diretta e macroscopica. Guidando la cacciata dei partiti dal potere politico, spianando la strada alla magistratura, e costruendo le basi materiali e teoriche per il giustizialismo, e cioè per quella ideologia robusta che – dall’inizio degli ani novanta – diventò ( ed è ancora) l’ideologia nazionale, sostituendo l’ideologia dell’antifascismo, che nel primo mezzo secolo del dopoguerra aveva costituito l’elemento unificante dello spirito pubblico nazionale. Cosa fecero i giornali e i giornalisti? Usarono le inchieste della magistratura come artiglieria per sparare sul quartier generale. Decisero, con uso largo di grandi mezzi, di descrivere il Palazzo della politica come un luogo ignobile di ruberie e sotterfugi, abitato esclusivamente da malfattori e lestofanti. E subito dopo assunsero il ruolo di guida del paese, che era stato abbandonato dalla politica in fuga e che non poteva essere raccolto direttamente dai magistrati, modificando completamente la propria funzione intellettuale e civile, e preparandosi a partecipare al nuovo potere politico.

Il disegno non riuscì del tutto perché quando la prima Repubblica sprofondò definitivamente, prima con un plebiscito che abolì la legge elettorale e quindici giorni dopo con il linciaggio in piazza di Bettino Craxi ( 18 e 30 aprile 1993), cioè con due strumenti tipici dell’insurrezione, ci fu la reazione ( imprevista) di un pezzo minoritario ma assai rampante della borghesia, guidato da Silvio Berlusconi, che deviò la rotta che giornali, magistrati e poteri economici ( soprattutto quelli che si radunavano attorno alla famiglia Agnelli) avevano previsto. E’ nata così, un po’ sbilenca, la seconda repubblica.

In quella alleanza coi magistrati e la grande finanza, il compito dei giornalisti fu decisivo, e il modo nel quale si organizzarono molto ben studiato e definito. E’ vero che alla fine gli altri due membri dell’alleanza portarono a casa gran parte del bottino, e i giornalisti restarono a mani vuote, ma questo non ridimensiona il ruolo che ebbero di “punta di lancia” dell’operazione.

Altra volte ho parlato come testimone diretto di quella vicenda. Ora, visto che il tema è tornato alla ribalta – e credo che sia un nodo decisivo della storia, non spettacolare, della crisi del giornalismo italiano e dello stato di subalternità e di inferiorità nel quale vive – voglio essere ancora più preciso.

I principali giornali italiani avevano costituito un “pool”, rinunciando a quell’elemento decisivo, storicamente, nella vita dei giornali e del giornalismo, che è la competizione e la concorrenza. Quattro giornali firmarono un patto di ferro: “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “L’Unità” e “La “Repubblica”. Tranne Eugenio Scalfari, tutti gli altri direttori furono direttamente coinvolti in questo patto. Erano personaggi di primissimo piano, e contavano moltissimo nell’establishment, e furono tra i pochissimi che non furono travolti dall’” insurrezione”, anzi la guidarono. Paolo Mieli, Ezio Mauro, Walter Veltroni, che erano i direttori dei primi tre giornali, e un certo numero di capiredattori di Repubblica, il nome più noto è quello di Antonio Polito. Non ho mai potuto accertare se Scalfari sapesse e se approvasse. Ho solo un sospetto.

Io all’epoca ero condirettore dell’Unità, e dunque – lo confesso – partecipai direttamente a molti colloqui e assistetti a tutto ciò che avvenne. Ogni sera, verso le sette, i direttori o i vicedirettori o i capiredattori, si sentivano per telefono e decidevano come fare le prime pagine, come dare le notizie, con quale forza, con quale gerarchia. Tutte le notizie, ovviamente, ma soprattutto le notizie che riguardavano il palazzo e l’inchiesta sulle Tangenti, che ogni giorno mieteva nuove vittime. Le “macchine”, come si dice in gergo, dei giornali furono rivoluzionate. I giornalisti non erano più titolari delle notizie, rispondevano a questa specie di “spectre” che era il supervertice dei quattro giornali. Il pool di direttori si interfacciava con in pool di giornalisti giudiziari, che aveva coinvolto anche giornalisti delle Tv, ed era alle dirette dipendenze delle Procure, e in particolare della Procura di Milano. Nessun giornalista giudiziario che non facesse parte del pool poteva più accedere a nessun tipo di notizia di giudiziaria, e rapidamente, per questa ragione, veniva eliminato dalla piazza.

Il pool dei direttori – nel quale spiccava una specie di diarchia: Mieli che era il giornalista più autorevole, e Veltroni, che guidava un giornale ma era l’unico esponente della politica ammesso a questo consesso – aveva assunto anche vere e proprie funzioni legislative. L’esempio più clamoroso è quello del decreto– Conso. E’ un decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 5 marzo del 1993 ( come vedete, se fate attenzione alle date, di poche settimane precedente al referendum– plebiscito e al linciaggio di Craxi, cioè agli atti finali dell’insurrezione) nel quale il ministro della giustizia, Giovanni Conso ( giurista celebre e stimatissimo, ex presidente della Corte Costituzionale) disponeva la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti ( non degli arricchimenti personali) per porre un argine all’ondata giustizialista. Il decreto non fu bocciato dal Parlamento ma dal pool dei giornali. Ricordo che quel giorno all’ Unità era arrivato un articolo di un dirigente del partito, favorevole al decreto. Poi alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli latri direttori e si decise di affossare il decreto. L’editoriale fu corretto. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono ( la potenza di fuoco di quei quattro giornali era grandissima e costringeva le altre testate ad adeguarsi). Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde. E quello fu lo squillo di tromba che diede il via all’ultima e definitiva offensiva che travolse gli argini e annientò la prima Repubblica e un’intera, e valorosissima, classe dirigente che aveva portato l’Italia ai grandi successi economici e alla conquista della democrazia piena e dello Stato di diritto. Le cose andarono così, e tanti miei colleghi possono confermare. Quali furono le conseguenze per la solidità della nostra democrazia è ancora oggetto di discussione. Personalmente credo che la democrazia fu fortemente indebolita. Da due elementi. Il primo è il dilagare dell’ideologia giustizialista, che ha travolto lo Stato di diritto. Il giustizialismo è una ideologia che non credo sia compatibile con la democrazia liberale. Il secondo elemento è lo strapotere che è stato assunto dalla magistratura e dall’economia, che ha messo in discussione lo Stato liberale.

Non si è mai invece nemmeno discusso di quali furono le conseguenze per il giornalismo italiano. Io credo che in quei giorni il giornalismo italiano morì. Sepolto dal suo tradimento. Il giornalismo nel suo Dna ha l’obbligo di informare, ha la ricerca dell’oggettività, la terzietà rispetto agli scontri di potere. Il giornalismo ha l’obbligo di criticare il potere, di contrapporvisi. In quelle giornate tra il 1992 e il 1993 abiurò. Decise di farsi travolgere nelle lotte del potere e di diventarne parte attiva e anzi parte dirigente. Di accettare la subalternità ai magistrati e ai potenti dell’economia, nella convinzione di poter poi svolgere una funzione di guida nella nuova alleanza. Non gli fu affidata la guida, invece, ma solo una funzione servile. Non si è mai ripreso – credo – da quel crollo. Forse per questo oggi il giornalismo italiano è lontano mille miglia dal grande giornalismo europeo e americano. Loro hanno “Le Monde”, il “New York Times”, fanno informazione e cultura. Noi abbiamo “Il Fatto” ( e molti altri simili), facciamo propaganda e ufficio stampa alle Procure.

Articolo di Piero Sansonetti pubblicato su Il dubbio il 30 dicembre 2016

 

 

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