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Enrico Buemi

 

 

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La furbizia del buon politico

 

Tiziano Renzi e Luca Lotti non sono colpevoli. Lo dice la Costituzione all’articolo 27, che aggiunge: «Sino alla condanna definitiva». Nel nostro caso il processo non è ancora nemmeno cominciato, e non è neanche sicuro che cominci mai contro i due politici indagati, perché prima ci vuole un rinvio a giudizio. È bene ricordarlo, come ha fatto su questo giornale l’avvocato Giuliano Pisapia, uno dei pochi in Italia che riesce a non dimenticare la legge anche nel pieno della mischia politica.

Questa avvertenza vale come principio teorico, ma anche come fatto storico. Non sarebbe infatti la prima volta che dei politici finiscono in un’inchiesta su Romeo e ne escono puliti. Accadde a Napoli nel 2008: quattro assessori della giunta Iervolino furono arrestati e un altro, Giorgio Nugnes, si tolse la vita, perché accusati di aver favorito l’imprenditore nell’assegnazione di un appalto comunale. Le accuse caddero in parte nei due gradi di giudizio, e del tutto in Cassazione, che annullò la sentenza senza rinvio, parlando di «vuoto probatorio» e di «deduzioni generiche perché enunziate ma non dimostrate».

Tutto questo non per sminuire la portata dall’attuale inchiesta Consip e le ombre pesanti che proietta sul sistema degli appalti pubblici. Ma anzi per dire che non c’è davvero bisogno di aspettare che la giustizia faccia il suo corso per vedere quanto diffusa e ormai quasi accettata sia diventata la commistione tra affari e politica nel nostro Paese, innanzitutto nel partito di governo, il Pd.

Si è negli anni indebolito l’argine morale e deontologico, e si è spesso oltrepassato il limite della decenza, nel nome di una presunta modernità. La furbizia e la spregiudicatezza sono diventati requisiti del buon politico, soprattutto se giovane e dunque dinamico, insofferente dei vecchi riti. Ma se le regole basilari di buona condotta non vengono più rispettate, un po’ alla volta si apre la strada, consapevolmente o perfino inconsapevolmente, alle degenerazioni.

 

Facciamo un esempio. Se si chiede all’avvocato Alberto Bianchi di presiedere la fondazione che raccoglie fondi per Matteo Renzi, gli si deve anche chiedere di mettere fine ai suoi rapporti di lavoro (parcelle per 290 mila euro in quattro anni) con un’azienda come Consip che assegna appalti pubblici, perché è esposto al sospetto di non essere neutrale nei confronti di chi gli ha versato dei contributi. Altrimenti si aggrava il rischio che qualche imprenditore ci provi, versando soldi e poi chiedendo favori in cambio. Magari all’amministratore delegato della Consip, nominato da quello stesso potere politico su base fiduciaria, il quale ha ammesso in un interrogatorio di aver subito pressioni e ricatti.

Un altro esempio: se si inserisce surrettiziamente Verdini e il suo gruppo di fuoriusciti da Forza Italia nella maggioranza di governo, come fece il governo Renzi, con che autorità si può poi impedire a tanti politici locali di fare avanti e indietro tra centrodestra e Pd (due di loro, a Napoli e a Castellammare di Stabia, comprando tessere a pacchi, in contanti o con la carta Poste Pay)?

E se, sempre restando a Napoli, il consigliere comunale che dava un euro a testa agli elettori fuori dal seggio per far vincere il suo candidato alle primarie viene poi assolto dalla commissione di garanzia perché il suo comportamento «non era inappropriato», come si può pretendere che gli affaristi non affluiscano al Pd, riconoscendolo come un luogo dove si può scalare il potere per fare affari? Non deve trattarsi solo di Napoli, se è vero ciò che ha scritto Francesco Grignetti sulla Stampa , e cioè che al circolo Pd dei Renzi, a Rignano, vanno a iscriversi a frotte anche dai comuni vicini, come se fosse una Medjugorje del potere.

 

Lo sdoganamento della furbizia non è solo un difetto di Renzi, riguarda anche i suoi oppositori. È stato notato di recente che in una sola intervista Michele Emiliano ha usato cinque volte il termine «fregare», volevano fregarmi, non mi faccio fregare, sarò io a fregare loro. Oggi, sempre più apertamente, la politica è astuzia e tornaconto personale. E stiamo parlando, nel caso di Emiliano, di un signore che pretende di diventare segretario del maggior partito italiano senza dimettersi dalla magistratura. Del resto faceva il pm a Bari ed era impegnato in delicate inchieste politiche quando fu candidato, con la benedizione di D’Alema, a sindaco della stessa città.

La moralità politica non è solo non rubare. È anche rispettare e far rispettare le regole dimostrando la massima severità e intransigenza, evitando così che qualcun’altro pensi di poter farla franca violandole. Questo aspetto della rottamazione del malcostume italiano non è riuscito alla leadership di Renzi. Ne sta pagando il prezzo, forse anche al di là delle sue responsabilità personali.

Articolo di Antonio Polito pubblicato su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2017

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