l’intervista
Epifani: «No al
partito del capo,
vuole solo un plebiscito.
Bisogna uscire in fretta»
L’ex
segretario: «Noi federatori, il Partito
democratico non sarà un nostro rivale. È
stata una scelta sofferta ma convinta. È
un arrivederci, non un addio»
Guglielmo Epifani è fuori
dal Pd dopo esserne stato
anche segretario. Perché?
«È stata una scelta sofferta
ma convinta, perché il Pd ha
cambiato pelle. Nella vita
interna, con
un’accentuazione del
“partito del capo” invece
del “partito comunità”. Ora,
non è che sia contro il
leader forte, ma questi lo è
quando sente un limite, cioè
di essere il segretario di
tutti. E Renzi non lo è
stato. Questa deriva ha
fatto sì che il Pd perdesse
consenso e radicamento nei
settori sociali che
dovrebbero essere il nostro
riferimento: i giovani, i
lavoratori, la scuola,
l’ambientalismo».
Ma la battaglia non potevate
farla dall’interno?
«No, perché non si vuole
fare un esame degli errori
né correggerli. Noi abbiamo
fatto proposte ragionevoli:
che il Pd si impegnasse per
portare a termine la
legislatura; che si
svolgesse una conferenza
programmatica vera. Invece
hanno scelto un congresso
anticipato, che assomiglia a
un plebiscito su Renzi».
Impossibile un vostro
ripensamento?
«Non vedo le condizioni. In
più avverto rischio che, se
non ci muoviamo, con quei
mondi di riferimento non
recuperiamo più un rapporto
positivo, perché una parte
già vota per i 5 Stelle
mentre molti si sono
rifugiati nell’astensione.
Se non ricostruiamo un
rapporto, consegniamo il
nostro mondo alla destra e
ai populisti».
Che conseguenza avrà la
scissione sul governo?
«Quello che nasce sosterrà
il governo Gentiloni, pur
chiedendogli di correggere
il tiro sulle questioni
sociali. E poi, sia chiaro,
noi non vogliamo avere il Pd
come avversario. Il nostro
più che un addio è un
arrivederci. Noi lanciamo
una sfida: ricostruire un
punto di riferimento per
quei mondi sociali che
abbiamo perso. Ridar vita
cioè a quel soggetto che si
era immaginato dovesse
essere il Pd. Una sfida in
avanti, quindi. Non pensiamo
a una ridotta identitaria».
Ma cos’è «quello che
nascerà»?
«Per ora costituiamo i
gruppi parlamentari. Poi
decideremo democraticamente
se andare verso una forma
partito, un movimento, una
rete, un contenitore
aperto».
Se non avrete il Pd come
avversario, ne sarete
alleati, col rischio di fare
come Rifondazione di
Bertinotti: la spina nel
fianco che fece cadere il
governo Prodi.
«Ma no, quello che vogliamo
fare è esattamente il
contrario. Abbiamo
un’ambizione alta. Non dico
di essere i federatori di
tutta la sinistra, ma di
ricostruire dal basso il
rapporto col mondo della
sinistra. Oggi siamo al
paradosso che Berlusconi
studia misure contro la
povertà. Dobbiamo muoverci,
o sarà tardi».
Lei nasce socialista. Che
effetto le fa ritrovarsi con
i vecchi pci?
«I socialisti-riformisti
hanno sempre guardato ai
giovani, ai lavoratori, alla
scuola, all’ambientalismo
alle periferie. Questo è il
mio mondo. Oggi c’è bisogno
di maggiore riformismo e
radicalità. È la stessa cosa
su cui punta in Germania il
socialdemocratico Schulz».
Antonio Polito sul
Corriere ha scritto
che il Pd era un’utopia. È
d’accordo?
«Non so se era un’utopia. Il
Pd ha governato. Certo,
resto dell’idea che le
modalità di costituzione del
partito e molti aspetti
dello statuto fossero
sbagliati. Sul congresso,
per esempio, le regole della
Cgil sono più partecipative
e garantiste verso le
minoranze».
Che rapporti avrete con la
Cgil di cui è stato
segretario?
«Di grande rispetto, verso
tutto il sindacato. È un
pezzo del mondo di cui
parlavo».
Che dice di Emiliano che ci
ha ripensato e resta nel Pd?
«Avrà le sue ragioni, che
rispetto. Basta però con le
giravolte».
Intervista di Enrico Marro
pubblicata su Il Corriere
della Sera il 21 febbraio
2017 |
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