Responsabilità civile dei magistrati, la legge è una battaglia
socialista e di civiltà
Enrico Buemi
Quando
nel 1988 fu approvata la legge Vassalli, la soluzione del
problema della responsabilità civile dei giudici – evidenziato
dalla plebiscitaria risposta al referendum dell’anno prima – era
stata impostata secondo i seguenti principi di ragionevolezza
istituzionale: no alla responsabilità diretta, che non era
nell’oggetto del referendum (esclusivamente abrogativo di una
modalità di esenzione quasi assoluta della responsabilità,
imposta dal legislatore fascista); sì ad una responsabilità
indiretta, che – mediante la frapposizione dello Stato,
convenuto dal danneggiato ed attore nella successiva rivalsa –
“schermasse” il giudice dal contatto diretto con il cittadino.
Ciò per evitare iniziative intimidatorie, tali da compromettere
l’indipendenza e la serenità del giudizio dei magistrati, in
quanto li espone ad una sorta di “pressione psicologica” da
parte di privati dalle grandi disponibilità economiche.
Il
disegno di Giuliano Vassalli era chiaro e, se fosse stato
attuato in buona fede, non saremmo al punto in cui siamo, un
punto simboleggiato da numeri sconvolgenti: solo 7 casi di
condanna di magistrati, in 25 anni di vigenza della legge, non
rispecchiano certo la percezione pubblica del dislivello
qualitativo del sistema giustizia.
Il fatto è che l’applicazione della legge del 1988 è stata
affidata ad una magistratura nettamente inferiore a quella (Beria
d’Argentine) che collaborò con Vassalli per la stesura di quella
legge. Chi credesse che – abolendo il solo filtro di
ammissibilità – si risolverebbe il problema, vedrebbe il dito
invece della luna.
Nell’udienza di ammissibilità i giudici si sono inventati
interpretazioni furbastre della “clausola di salvaguardia”
dell’articolo 2: è questa che bisogna modificare (e rendere più
chiara nel suo collegamento con la colpa grave), se si vuole far
funzionare il sistema. Un sistema che non funziona, se è vero
che sono già due le sentenze con cui la Corte di giustizia
dell’Unione condanna l’Italia per la tassatività ed assolutezza
della clausola di salvaguardia (anche se – ovviamente – si
riferisce solo all’interpretazione del diritto della quale essa
è competente, cioè quello europeo).
Per difendere questa assolutezza l’ANM è risalita alla legge
delle guarentigie ed allo Statuto Albertino (condito con
riferimenti alle deliberazioni del Consiglio d’Europa), per
dimostrare che l’interpretazione del diritto è libera e non può
soffrire né indirizzi, né censure. Semmai, secondo loro, l’atto
potrà essere censurato, nei gradi successivi di giudizio, ma mai
il giudice che l’ha scritto. Per la corporazione il precedente
non vincola, la nomofilachia del grado massimo (noi proponiamo
le Sezioni Unite della Cassazione) non vincola, il C.S.M. non
vincola. Peccato che questa visione contrasti non solo con la
percezione dei cittadini, ma anche con la relazione dei Saggi
nominati dal Capo dello Stato nella primavera del 2013, che da
tutte le provenienze politiche e culturali ritennero necessario
introdurre elementi di vincolatività nella produzione
giurisprudenziale incentrata sul precedente.
In un momento in cui ingegneri e medici sono chiamati a rendere
conto del rispetto della “regola d’arte”, il giudice è libero di
interpretare il diritto in modo personale ed originalissimo. Nel
migliore dei mondi possibili, questa declinazione personale
della valutazione esprimerebbe un arricchimento della
giurisprudenza: ma in una fase in cui il giudice esamina
centinaia di fascicoli al giorno, in cui – più che interprete
del diritto – è il titolare di uno sportello pubblico, siamo
proprio certi che questa originalità rappresenti sempre il
frutto di un approfondimento prezioso? Siamo proprio certi che
motivazioni apodittiche, eccentriche o non calzanti non siano un
modo comodo per fronteggiare le iniziative seriali della
litigiosità e del conflitto sociale?
Se si discosta dal modo in cui la vedono tutti gli altri giudici
della Repubblica, il suo è sempre un contributo intellettuale in
controtendenza, o talvolta è semplicemente il frutto di
sciatteria, incompletezza di analisi, automatismo burocratico? E
quando è così, il suo autore non merita di essere chiamato a
risponderne in qualche modo? Ci si dice che la responsabilità
disciplinare non è la sede, perché non può trasformarsi in un
quarto grado di giudizio: allora perché non obbligare lo Stato a
rivolgersi ai suoi colleghi giudici, investiti in sede civile,
mediante il meccanismo della rivalsa dopo che lo Stato s’è visto
soccombente dinanzi al privato danneggiato?
Che non stiamo nel migliore dei mondi, ne sono consapevoli gli
stessi magistrati, se è vero che ad inizio agosto in Senato
Piero Grasso s’è rifiutato di porre ai voti la mia proposta di
eleggere per sorteggio tra tutti i giudici i membri del CSM.
Quando si viene al dunque, la categoria si rende ben conto che
il livello qualitativo non è eccellente per tutti i suoi
iscritti, e non vuole correre il rischio di mettere le proprie
progressioni economiche nelle mani di un collega, al quale pure
si dà mano libera sulla libertà e sui beni dei “normali”
cittadini.
Venerdì 31 Ottobre 2014
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